Il fatto. Una donna decide di sottoporsi ad una serie di cure, trattamenti ed interventi riabilitativi di protesi ed impianti, al fine di attivare una nuova riabilitazione delle arcate dentarie. In particolare, la situazione dentaria e protesica della paziente comprendeva sull’arcata dentaria superiore tre protesi fisse che riguardavano il gruppo frontale e due settori laterali; inferiormente, la paziente indossava una protesi scheletrica semplice.

L’odontoiatra al quale si rivolge, dopo aver rimosso le protesi precedenti – che lui stesso aveva installato anni prima – provvede a progettare e curare diversi elementi dentali e l’avulsione di altri, installando impianti nell’arcata inferiore e applicando protesi (provvisorie e definitive) su entrambe le arcate.

A seguito dell’applicazione delle protesi definitive, la donna inizia a lamentare problemi alla protesi superiore, accusando impotenza funzionale e disagi masticatori con gravi difficoltà alle pratiche igieniche, accompagnati da fenomeni ascessuali sui denti pilastro. Si rivolge nuovamente all’odontoiatra, il quale in un primo momento le prescrive delle terapie e in seguito decide di rimuovere le protesi dell’arcata superiore con un martelletto odontoiatrico (provocando la frattura di due incisivi).

La paziente decide di rivolgersi ad altri professionisti, i quali constatano:

  • nell’arcata superiore: presenza di protesi a ponte di undici elementi di sostituzione, con modellazione grossolana e non autodetergente, sovra contorni dei bordi di chiusura delle corone, con infiltrazioni sensibili su tutti gli elementi di supporto; fratture delle ceramiche di rivestimento su alcuni denti.
  • nell’arcata inferiore: protesi a ponte di tre elementi con un vacillamento di primo grado e protesi a ponte di quattro elementi con grave carie sottocoronale.

Accertano, perciò, che sono stati realizzati trattamenti endodontici incongrui su una serie di denti, con lesioni periapicali, fratture ed infiltrazioni sottocoronali. Inoltre, rilevano come tutti gli impianti presentino gravissimi segni di perimplantite.

All’esito della visita medico-legale, alla donna viene riscontrata la sussistenza di un danno biologico permanente a causa della perdita di diversi elementi dentari; un periodo di invalidità temporanea parziale per lo stato di impotenza funzionale masticatoria protrattasi per circa tre anni e per il tempo necessario alle cure mediche; un danno patrimoniale emergente per le spese che avrebbe dovuto affrontare in futuro.

La donna invia una lettera di diffida all’odontoiatra, ottenendo in cambio un risarcimento da parte della compagnia assicuratrice del dentista. Non soddisfatta, la donna si rivolge al Tribunale, chiedendo, nei confronti dell’odontoiatra, il risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali patiti.

Il Tribunale di Bologna. L’odontoiatra, costituendosi in giudizio, eccepisce la prescrizione del diritto vantato dalla donna, sostenendo di aver effettuato i primi interventi più di dieci anni prima. Trattandosi, nel caso, di responsabilità contrattuale, il diritto al risarcimento risulterebbe dunque prescritto.

Il Tribunale, tuttavia, sottolinea quanto previsto dall’art. 2935 del codice civile, secondo cui “La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”. Da ciò si deduce che tale momento è identificabile non nel momento in cui il fatto del terzo determina ontologicamente il danno all’altrui diritto, bensì “dal momento in cui la produzione del danno si manifesta all’esterno, ossia quando il danno diviene oggettivamente percepibile e riconoscibile, nonché dalla sua addebitabilità ad un determinato soggetto”.

Nel caso di specie, quindi, secondo il Tribunale, il dies a quo deve essere individuato “nel momento in cui l’attrice ha avuto una reale percezione del danno sia in termini di dolore ma anche in termini di riconducibilità della responsabilità all’errato operato del medico”.

La donna nulla lamentò dopo i primi interventi, inerenti al primo ciclo di cure, percependo problemi alle arcate dentarie soltanto in occasione del secondo ciclo di riabilitazione, momento in cui tornò dall’odontoiatra in possesso di tutti gli elementi utili a percepire la sussistenza del danno e la sua riferibilità al suo primo operato. Essendo la distanza temporale da tale secondo momento al momento di instaurazione del giudizio inferiore a dieci anni, non può essere intervenuta alcuna prescrizione.

Infine, per quanto riguarda l’accertamento della responsabilità in capo all’odontoiatra, il Tribunale si riporta alle conclusioni del Consulente Tecnico d’Ufficio, che evidenziano la sussistenza di errori nell’operato del medico: errori che determinarono la frattura di pilastri protesici, il fallimento precoce di impianti e parodontiti apicali.

Il Tribunale condanna perciò l’odontoiatra al risarcimento dei danni subiti dalla paziente.