Il fatto prospettato

Tizio, già sofferente per varie patologie, è sottoposto ad analisi emato-chimiche presso una struttura ospedaliera della ULSS di afferenza. I risultati delle analisi mostrano un elevato livello nel valore del potassio (livello qualificato “allarmante”, in atti di parte e poi in sentenze, poiché tale da evidenziare un imminente pericolo di vita). I risultati delle analisi non vengono comunicati al medico curante. Tre giorni dopo il paziente muore per arresto cardiaco, che viene prospettato conseguente alla situazione di iperpotassemia (7.3 mEq/I).

La domanda risarcitoria

Caio e Sempronia chiedono il risarcimento dei danni subiti per la morte del proprio congiunto, asserendola cagionata dal fatto che la ULSS (con condotta colpevolmente omissiva) non aveva comunicato, al medico curante, l’imminente pericolo di vita del paziente.

Il primo grado

Il giudice di primo grado respinge la domanda, ravvisando: mancanza di fonte contrattuale per una situazione giuridica comprensiva dell’obbligo di comunicazione al medico curante (sottolineando il fatto che il paziente si era rivolto all’ospedale non per essere ricoverato, bensì per essere meramente sopposto ad analisi cliniche); mancanza di fonti normative idonee a far sorgere, in capo all’Azienda sanitaria, l’obbligo di comunicare, ai medici curanti, i risultati delle analisi.

Il secondo grado

Il giudice di appello rigetta l’impugnazione della sentenza di primo grado.

La Corte di Cassazione

La Corte Suprema cassa la sentenza di appello e rinvia alla medesima Corte di Appello affinché, in diversa composizione, giudichi attenendosi ai principi esposti nella sentenza di cassazione, tra cui i seguenti:

  • Il cosiddetto “contratto di spedalità” deve ritenersi concluso tra le parti quando il paziente si rivolge alla struttura, essendo irrilevante che il paziente si rivolga alla struttura ospedaliera o per ricovero o per analisi;
  • la struttura ospedaliera è tenuta a un obbligo di prestazione e al correlato dovere di protezione del paziente;
  • (manca, sul piano generale, un dovere di comunicare, al medico curante, una qualsiasi alterazione dai valori ritenuti normali, ma) l’impredicabilità di un dovere generale di comunicazione trova un limite invalicabile nell’ipotesi in cui l’alterazione si riveli di gravità tale da mettere in pericolo la vita stessa del paziente;
  • l’omissione o il ritardo di comunicazione, nei casi della gravità indicata, costituisce violazione del precetto di cui al secondo comma dell’art. 1176 c.c. (articolo che qui si riferisce per intero: “Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia. Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio dell’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”).

Commento: la supplenza all’inerzia del paziente

In sostanza, la Cassazione evidenzia, in capo alla struttura, un dovere (tecnicamente, una obbligazione) avente ad oggetto la protezione del paziente.

Nel caso delle analisi cliniche, qualora risultino alterazioni tali da evidenziare un pericolo di vita del paziente, l’obbligazione di protezione include il dovere di dare di comunicazione dei risultati non anomali ma critici: la sentenza è prevalentemente impostata sulla comunicazione al medico curante (perché così era impostata la causa) ma nella sentenza si parla (anche) di comunicazione al medico curante o al paziente.

Secondo la Cassazione, quindi, le strutture, se in difetto nel fornire tempestiva informazione su valori critici, non potrebbero obiettare che il paziente, richiedendo le analisi, assume il rischio della propria imprudenza quando tarda nel ritiro delle analisi, o addirittura quando decide il non ritiro. Secondo la Cassazione, il rischio grava integralmente sulla struttura se, nei casi critici, la struttura non supplisce alla imprudenza del paziente.

Questa impostazione, di fonte giuridica e specificamente giurisprudenziale, è destinata, verosimilmente, a suscitare inquietudini in campo sanitario; talvolta, infatti, la prassi concreta delle analisi cliniche produce i risultati, li riproduce su supporto, formula infine l’indicazione direttiva di sottoporre i risultati alla valutazione del medico curante. I valori anomali sono ovviamente evidenziati, e talvolta sono anche evidenziali i livelli di discostamento o di rischio, ma può capitare che la prassi non  includa le attività di supplenza alla inerzia del paziente.

Ovviamente, in concreto, tutto si può fare; ma l’impatto di recepimento di tale impostazione non appare di poco conto. Recepire concretamente l’impostazione implica: a) istituzionalizzare, nella struttura sanitaria, una fase (incrementale) di valutazione dei risultati e di selezione delle situazioni critiche; istituzionalizzare una fase, conseguente, di comunicazione al medico curante e/o al paziente, a prescindere dal ritiro delle analisi da parte del paziente.

Ovviamente, come si diceva, tutto si può fare, e molte strutture virtuose (o forti?) già lo fanno. Ma occorre tener conto che molte strutture fanno ciò che fanno ai limiti ed anche oltre i limiti rispetto alle loro risorse.

Commento: ambiti delle Consulenze Tecniche d’Ufficio (chiamate gergalmente per brevità CTU)

Nella sentenza della Corte di cassazione appare che la CTU, al di là e a prescindere da qualsivoglia normativa o regolamentare o amministrativa (le cosiddette linee guida), il valore della potassemia emersa dalle analisi indicasse inequivocabilmente un pericolo di vita del paziente e ne imponesse una immediata comunicazione ai medici curanti.

Una considerazione sorge ineludibile (pur non essendo disponibile il testo integrale della CTU): deve restar fermo che una CTU può certamente, ed anzi deve, informare il Giudice se un determinato valore evidenzia o non evidenzia un pericolo di vita; ma è dubbio che una CTU possa pronunciarsi in tema di “dovere di immediata comunicazione ai medici curanti” (il dovere di comunicazione non è questione tecnica, ma soltanto giuridica).