Una sentenza che fa discutere

 

IL FATTO

La Corte di Cassazione riporta il fatto utilizzando, in primo approccio, la seguente formulazione desunta dal precedente giudizio di merito (Tribunale, in funzione di Giudice del riesame). “in data …, agenti del Nas dei CC di … avevano effettuato una ispezione presso la struttura in questione [NDR: d’ora innanzi denominata Struttura], accertando la presenza, all’interno di essa, delle apparecchiature diagnostiche poi oggetto di sequestro nonché di una persona avente il compito di infermiera (come da qualificazione professionale conseguita e dichiarata) la quale aveva affermato, agli agenti operanti, che il suo compito era di accogliere i pazienti che intendevano sottoporsi ad accertamenti clinici, raccogliere il loro consenso informato, inserire i loro dati in un sistema informatico, trasmettere i dati, ottenuti attraverso l’accertamento strumentale, ad altro studio medico ubicato altrove, ricevere il referto che veniva dato da personale medico e consegnarlo ai pazienti, quindi ricevere il pagamento della prestazione”.

Dunque, le attività ivi espletate dal personale sanitario, in tale Struttura ubicata in un Centro Commerciale, risultano essere: accoglienza dei pazienti; raccolta del consenso informato; inserimento dei loro dati in sistema informatico; trasmissione dei dati ottenuti attraverso accertamento strumentale; eccetera.

Rileggendo tale elenco, si impongono subito alcune domande: di quali dati si trattava? E per di più, specificamente: quali dati ottenuti attraverso quali accertamenti strumentali?

 

La Corte di Cassazione, sempre assumendo dai giudici di merito, precisa che “il personale della Struttura presente in loco coadiuva (coadiuvava) i pazienti nello svolgimento dell’attività di acquisizione dei dati attraverso l’utilizzo dello strumentario diagnostico posto a disposizione”.

Quindi, si trattava di dati assumibili attraverso strumenti utilizzabili dal paziente stesso, che, nel caso, veniva coadiuvato.

La Corte di Cassazione, in altro passaggio, precisa che “la metodica seguita presso il centro [la Struttura ubicata nel Centro commerciale] prevedeva che chi intendesse fruire dei servizi offerti era dapprima generalizzato da una persona addetta, poi veniva informato di quanto sarebbe di lì a poco avvenuto, quindi era sottoposto a taluni esami strumentali, privi di qualsiasi invasività fisica, i cui dati venivano trasmessi, attraverso canali informatici, ad uno studio medico polispecialistico …

Facile notare una differenza tra le due ultime formulazioni: nella penultima formulazione, il paziente risulta coadiuvato; nell’ultima formulazione, il paziente risulta sottoposto.

Sempre la Corte di Cassazione, poco più avanti, aggiunge trattarsi di “acquisizione del dato anamnestico assunto attraverso strumenti (non comportanti alcuna invasione della integrità fisica del soggetto interessato) che il paziente avrebbe potuto utilizzare anche autonomamente”.

Il fatto, quindi, si presenta complessivamente come segue: i pazienti, in tale Struttura, effettuavano loro stessi l’utilizzo di strumenti autogestibili, oppure (più verosimilmente) erano coadiuvati, oppure (ancora più verosimilmente) erano sottoposti all’utilizzo di tali strumenti.

 

IL PRIMO GRADO

Il Tribunale ritiene sussistere gli elementi in violazione dell’art. 193 del TULS, il quanto la Struttura era stata attivata in assenza di autorizzazione regionale; cosicché, su richiesta del PM, il Tribunale procede al sequestro delle attrezzature rilevate.

 

IL SECONDO GRADO

Il medesimo Tribunale, in funzione di Tribunale del riesame, rigetta il ricorso avverso il provvedimento di sequestro ritenendo sussistere il fumus delicti poiché, nei locali de quibus, venivano erogati, all’interno della Struttura attivata nel Centro commerciale, prestazioni sanitarie in assenza della prescritta autorizzazione.

 

LA CORTE DI CASSAZIONE

Il dispositivo

La Corte di Cassazione annulla la ordinanza del Tribunale del riesame e dispone il rinvio al medesimo Tribunale affinché, in diversa composizione personale, provveda a riesaminare la istanza di riesame presentata dalla Struttura, verificando, alla luce degli elementi di cui in sentenza, se l’attività svolta dalla Struttura rivesta o meno, sia pure sotto la semplice apparenza del fumus, i caratteri propri della contravvenzione provvisoriamente contestata.

la norma di riferimento e la sua reinterpretazione sintetizzante

La Corte di Cassazione doveva decidere se, nei precedenti gradi di giudizio, fosse stato rispettato, nel qualificare il fatto e nel ravvisare l’eventuale reato, l’articolo 193 del TULS, il quale recita come segue:

Nessuno può aprire o mantenere in esercizio ambulatori, case o istituti di cura medico-chirurgica o di assistenza ostetrica, gabinetti di analisi per il pubblico a scopo di accertamento diagnostico, case o pensioni per gestanti, senza speciale autorizzazione del prefetto [NDR; allora del Prefetto, secondo la versione originaria della norma; oggi della Regione, tenuto conto dei mutati assetti ordinamentali] il quale la concede dopo aver sentito il parere del consiglio provinciale di sanità.  L’autorizzazione predetta è concessa dopo che sia stata assicurata la osservanza delle prescrizioni stabilite nella legge di pubblica sicurezza per l’apertura dei locali ove si dia alloggio per mercede.  Il contravventore alla presente disposizione ed alle prescrizioni, che il prefetto ritenga di imporre nell’atto di autorizzazione, è punito con l’arresto fino a due mesi o con l’ammenda da lire 1.000.000 a 2.000.000.  Il prefetto, indipendentemente dal procedimento penale, ordina la chiusura degli ambulatori o case o istituti di cura medico-chirurgica o di assistenza ostetrica ovvero delle case o pensioni per gestanti aperte o esercitate senza l’autorizzazione indicata nel presente articolo. Il prefetto può, altresì, ordinare la chiusura di quelli fra i detti istituti nei quali fossero constatate violazioni delle prescrizioni contenute nell’atto di autorizzazione od altre irregolarità. In tale caso, la durata della chiusura non può essere superiore a tre mesi. Il provvedimento del prefetto è definitivo”. 

La Corte di Cassazione mostra, sul punto, di conformarsi a una interessante reinterpretazione sintetizzante: “per il reato in questione è necessario che nella struttura, avente una finalità imprenditoriale e non meramente libero professionale, siano erogate, in assenza di autorizzazioni, prestazioni tipicamente sanitarie”. Ovvero, con formulazione presentata come equivalente, “siano compiuti atti aventi rilevanza medica, sebbene non necessariamente a contenuto immediatamente terapeutico”.

Per ulteriore precisazione che conferisca concretezza, la Corte di Cassazione aggiunge “a titolo puramente esemplificativo, [NDR: sono sanitarie] prestazioni come quelle relative alla somministrazione di farmaci, ovvero all’assistenza medica ed infermieristica anche laddove connessa a strutture a carattere residenziale, oppure relative alla medicina estetica e dermatologica, ovvero odontoiatrica”.

La nozione di riferimento diviene dunque, nel caso, quella di “prestazione medica”; ovvero, equivalentemente, “atto avente rilevanza medica”.

La qualificazione giuridica del fatto: non si tratta di prestazione medica

In rapporto alla norma interpretata come sopra, la Corte di Cassazione ha ritenuto che  “non possono qualificarsi tali [NDR: prestazioni mediche, ovvero atti aventi rilevanza medica] né gli atti il cui svolgimento è scevro da una qualsiasi attività organizzativa né gli atti nei quali é lo stesso paziente ad acquisire i dati anamnestici che, eventualmente, egli successivamente trasferirà al personale sanitario (si immagini la rilevazione, operata dallo stesso soggetto interessato, della propria temperatura corporea ovvero del peso e della pressione arteriosa sistolica e diastolica) tramite l’utilizzo di strumenti comunemente detti di autodiagnosi” [già così Cass. Pen. 1345/1998].

In definitiva: le attività della Struttura in questione, in cui si effettuata rilevazione di dati anamnestici “tramite utilizzo di strumenti cosiddetti di autodiagnosi” non risultano qualificabili come prestazioni sanitarie; e, conseguentemente, non sono da sottoporsi ad autorizzazione ai sensi dell’art 193 del TULS.

 

COMMENTI

“Teleinvio di dati sanitari ricavabili da strumenti autogestibili”

La Corte di Cassazione, trattando degli “elementi di fatto” da sottoporre a eventuale sussunzione quale “prestazione sanitaria”, si riferisce, con varianti minime, “all’invio di dati ottenibili tramite strumenti cosiddetti di autodiagnosi.

La dizione ‘strumenti di autodiagnosi’ risulta in uso ma non è soddisfacente; la Corte di cassazione ne è consapevole, e mostra di prenderne le distanze aggiungendo ‘cosiddetti’. In effetti, e per esempio, il dato relativo al peso corporeo si ottiene tramite una bilancia: la bilancia è uno strumento di autodiagnosi?

Inoltre, gli strumenti a cui ci si riferisce non sono neppure di autodiagnosi, perché il soggetto (con la bilancia o con il termometro) difficilmente potrà formulare egli stesso una diagnosi che lo riguardi (e, se lo facesse, incorrerebbe in un azzardo); certo, potrà dire ‘ho la febbre’, oppure ‘ho 38’, ma nessuna delle due asserzioni costituirebbe una diagnosi.

Mettendo quindi a punto la formulazione in esame, si tratterebbe, forse meglio, di “dati di rilevanza sanitaria ottenibili tramite strumenti autogestibili” (dove ‘autogestibili’ è meglio di ‘autogestiti’, poiché gli strumenti possono essere utilizzati anche in affiancamento o in sostituzione).

Ma questi sono dettagli terminologici, e occorre ancora oltre (su qualche altro aspetto di sostanza).

 

 

Chi può inviare i dati

Gli strumenti di autodiagnosi sono strumenti utilizzabili da soggetto non qualificato, e tale chiunque potrebbe da casa sua inviare al medico i dati acquisiti, il passo è breve. Ma allora è bene domandarsi:  è ammesso oppure è precluso, se si ricava, dalla sentenza, che anche per l’invio non occorrerebbe alcuna qualificazione?

Si sa che, quando si apre una porta, non si sa chi entra. E allora?

La Corte di Cassazione, dicendo che ottenimento e invio non sono prestazioni sanitarie, sembra aprire un varco eccessivamente generoso. Ne conseguirebbe che una associazione di volenterosi, oppure una pro loco, oppure un ufficio sindacale, potrebbero aprire (senza autorizzazione) un centro di raccolta e invio di dati sanitari “autogestiti”.

Tutto da capire e da verificare, rispetto alla formulazione letterale della sentenza. Tuttavia, almeno come dato di fatto che potrebbe costituire una presupposizione implicita, il Centro de quo era presidiato da una infermiera professionale.   E allora la Corte di Cassazione potrebbe aver pensato a un requisito implicito o comunque presupposto.

Gli esempi di dati sanitari di provenienza autogestita

Quando la Corte di Cassazione esemplifica gli strumenti di autodiagnosi, si esprime così: “si immagini la rilevazione, operata dallo stesso soggetto interessato, circa la  propria temperatura corporea ovvero il  peso ovvero la  pressione arteriosa sistolica e diastolica”. Va bene. È però omessa la rilevazione di altro e, in particolare, è omessa la rilevazione della glicemia. Perché? Era da omettere per via della invasività pur minima, oppure per il grado di variabile affidabilità dello strumento?  Non è dato sapere; ma, se la giurisprudenza decide il caso concreto anche per orientare le condotte future, una esemplificazione più ricca sarebbe stata più utile.

Il riferimento alla telemedicina: le formulazioni

Il Tribunale, trattando il caso, evoca la nozione di Telemedicina: “A tanto il Tribunale è pervenuto osservando che si è di fronte ad una ipotesi di servizi di telemedicina caratterizzati dal fatto che, utilizzando tecnologie innovative, la prestazione sanitaria viene erogata pur essendo il paziente il medico ubicati in località diverse”. Attenzione: fermo restando che la prestazione sanitaria non è quella di rilevazione e trasmissione dei dati, ma è quella diagnostica, che effettivamente, nel caso, risulta svolta (non nella Struttura non autorizzata, ubicata nel Centro commerciale) ma in una sede debitamente autorizzata”.

La Corte di Cassazione, nel solco tracciato dal Tribunale, evoca a su volta la Telemedicina: “Si è, in sostanza, di fronte a quel fenomeno, comunemente definito di telemedicina come ricordato dallo stesso tribunale del riesame, il quale fenomeno si caratterizza in quanto, per la realizzazione di talune pratiche mediche, per lo più diagnostiche, non vi è la necessaria compresenza nel medesimo luogo del paziente e dell’operatore sanitario, operando quest’ultimo sulla esclusiva base di dati a lui pervenuti attraverso tecnologie informatiche il cui utilizzo, appunto, consente lo svolgimento di atti medici anche fra assenti”.

Qui non interessa il grado di conformità, della nozione di telemedicina evocata in Corte, rispetto alle nozioni reperibili nelle sedi culturali e scientifiche che se ne occupano, ma interessa, piuttosto, la sua funzione nel contesto della Sentenza.

Il riferimento alla telemedicina: pertinenza giuridica dubbia

Il problema giuridico, che la Corte di Cassazione doveva risolvere, era il seguente: nei locali della Struttura in questione, ubicati nel Centro commerciale, venivano effettuate “prestazioni mediche” oppure no? Se sì, occorreva autorizzazione regionale; se no, non occorreva autorizzazione.

La sentenza ha risolto il problema decidendo non trattarsi di prestazioni mediche, quindi non occorreva autorizzazione (quindi non sussisteva reato ai sensi dell’art. 193 del TULP).

Il Tribunale e la Corte di Cassazione, mostrandosi consapevolmente ben informati sui nostri tempi, tuttavia non hanno resistito ai richiami di cui sopra, e hanno detto che “è un caso di telemedicina”.

Tale qualificazione appare inutile (ed è discutibile la sua presenza) perché non si trattava di ravvisare sussistenza o meno di telemedicina: la parola chiave (‘telemedicina’) non era e non è presente, né poteva esserlo, nella norma giuridica che il Giudice era chiamato ad interpretare ed applicare.

Il riferimento alla telemedicina: il paradosso di prestazioni non sanitarie che costituiscono telemedicina

La Corte di cassazione dice: le attività che erano svolte nella Struttura non erano prestazioni sanitarie. La Corte di Cassazione, nel contempo, dice: è un caso di Telemedicina. L’affermazione, di certo strana, é al limite della contraddizione.

Il riferimento alla telemedicina: fonte di fraintendimenti

Il riferimento culturale alla telemedicina, tecnicamente inutile e apparentemente innocuo, è tuttavia risultato mediaticamente pericoloso perché ha suscitato qualche superficiale o abile fraintendimento nella lettura corrente della sentenza.

Alcuni hanno inteso che la Corte di Cassazione abbia “liberalizzato la telemedicina”; o, comunque, abbia fornito un segnale di liberalizzazione nel senso che, se un soggetto è autorizzato ad erogare determinate prestazioni sanitarie, le possa erogare con le tecniche che ritenga opportune a suo giudizio.

Nulla di tutto ciò: la sentenza ha solo detto che non è prestazione sanitaria l’assunzione di dati anamnestici consegnati dal paziente, oppure ottenuti da esso, attraverso strumenti non invasivi che il paziente avrebbe potuto usare anche autonomamente.

Il discorso e il regime giuridico della telemedicina sono un’altra cosa; e, soprattutto, sono un itinerario molto complesso e ancora da percorrere (con coraggio e con saggezza).