La Corte costituzionale in supplenza parziale del legislatore

Parte 1: il commento

 

In sintesi, i requisiti per la non punibilità dell’aiuto al suicidio

Riassumendo e precisando la normativa modellata dalla Corte costituzionale, vengono in evidenza, anzitutto, i requisiti “soggettivi” (riferiti alla persona che intenda ricorrere al suicidio assistito). Ai fini della non punibilità dell’aiuto, il soggetto che intenda suicidarsi deve:

  • avere assunto la decisione in piena capacità di prendere decisioni libere e consapevoli [requisito più esigente rispetto alla mera capacità di intendere e di volere]; deve, altresì, non avere mutato, successivamente, tale decisione;
  • essere affetto da patologia irreversibile;
  • essere tenuto in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale;
  • essere afflitto da sofferenze fisiche o psicologiche conseguenti alla patologia [si noti: la congiunzione ‘o’ è disgiuntiva: quindi, sofferenze anche meramente psicologiche];
  • trovare intollerabili tali sofferenze [‘trovare’ sembra riferirsi a una valutazione meramente soggettiva]; inoltre, occorre ‘trovarle’ non solo intollerabili, ma assolutamente

Oltre ai profili soggettivi (in quanto relativi al soggetto), è richiesto che:

  • sia intervenuta ottemperanza alle modalità previste dagli 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento: si badi, gli articoli 1 e 2 riguardano  adempimenti più estesi rispetto alla mera raccolta del consenso informato); inoltre, per i fatti anteriori alla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale, occorre che siano intervenute modalità equivalenti;
  • le condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale (attenzione, verifica da parte di una struttura pubblica; non esecuzione da parte di una struttura pubblica);
  • sia intervenuto il parere del Comitato etico territorialmente competente.

 

Verifica del Ssn e parere del Comitato etico

Il primo interrogativo è la sequenza dei due atti: la verifica e il parere. La formulazione letterale (‘previo parere’) è ambigua poiché fa nascere il seguente interrogativo: il parere è previo rispetto a che cosa? È ‘previo’ rispetto alla verifica? Oppure la formulazione è un modo per sottolineare che, risalendo a monte, il parere è ‘previo’ ai fini della non punibilità?  Nella prima ipotesi, il parere ha natura istruttoria rispetto alla verifica; nella seconda ipotesi, la verifica ha natura istruttoria rispetto al parere. Verosimilmente, il parere sarà inteso come una sorta valutazione conclusiva: quindi, sarà inteso come ultimo atto del procedimento ai fini della non punibilità.

Tra i due momenti del procedimento, quello che suscita maggiori interrogativi è il parere del Comitato etico; è ad esso che occorre dedicare qualche attenzione.

Primo punto: la natura del parere. Secondo il comune sentire, si ritiene che un parere, se non diversamente specificato, sia obbligatorio ma non vincolante. Ma, nel caso, è verosimile che prevalga una diversa interpretazione, fondata su base sistematica nonché funzionale in riferimento alle rationes. E così, in caso di parere negativo non condiviso, occorrerebbe impugnazione da parte del dissenziente. 

Altro punto: l’oggetto del parere. Verosimilmente, il Comitato etico dovrà esprimersi su tutto quanto gli verrà rappresentato circa le condizioni soggettive del paziente, nonché circa gli adempimenti previsti dagli articoli 1 e 2 della legge 2019 del 2017, nonché circa la documentazione di verifica proveniente da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale (attenzione: qui si parla di struttura pubblica). Quindi, parere complessivo.

Tra le condizioni da sottoporre a parere (nonché a verifica) la più delicata riguarda il tema, drammatico, delle sofferenze. Tema che, in realtà, è duplice: in primo luogo, il sussistere di sofferenze fisiche o psicologiche conseguenti alla patologia; inoltre, il fatto di trovarle assolutamente intollerabili. La formulazione letterale (che utilizza il verbo ‘trovare’) è tale che, sul punto della intollerabilità soggettiva, si debba pensare a una sorta di presa d’atto nei confronti di una dichiarazione pressocché insindacabile. Ma potrebbe essere un punto controverso, tale da dare luogo a vicende contenziose.

Infine, il tipo di Comitato. Infatti, i Comitati etici regionali sono dediti essenzialmente alla sperimentazione (e, quindi, sono poco attrezzati per tale nuova funzione). È pur vero che alcune regioni hanno istituito Comitati di etica clinica, i quali sarebbero specificamente competenti, ma non si tratta di una presenza sufficientemente diffusa sul territorio nazionale.

Il diritto di decidere il percorso anche finale della propria vita, ferma restando la libertà di coscienza in capo ai medici

La sentenza della Corte costituzionale chiarisce che, in presenza di determinate condizioni, sussiste il diritto soggettivo, della Persona, di decidere il percorso della propria vita anche per quanto riguarda la propria fine (non è un mero interesse, non è un interesse legittimo: è un diritto della Persona, costituzionalmente garantito).

La Corte costituzionale chiarisce, anzitutto, che tale diritto non sussiste verso i medici: «la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato»

Il diritto di decidere il percorso anche finale della propria vita; diritto verso chi?

Se si ritiene ancora sensata l’antica regola secondo cui ciascun diritto evoca un dovere corrispondente, e se si afferma l’esistenza di un diritto di decidere della propria vita anche per quando riguarda la fine, e se in determinate condizioni non è tecnicamente possibile procedere autonomamente alla attuazione deldisegno suicidiario, quale soggetto avrà il dovere di conferire concretezza a tale diritto?

Non sembra che, sino ad ora, questo interrogativo sia emerso in tutta la sua terribile evidenza, difficilmente suscettibile di rimozione.

Verosimilmente, in tale ottica si finirà per pensare allo Stato, cioè al Servizio sanitario nazionale (tramite apposite strutture pubbliche, oppure tramite strutture private specificamente accreditate).

Ma su ciò, ovviamente, nella decisione della Corte non vi è parola né poteva esservi.  Infatti, già così, era scontato che la sentenza avrebbe provocato problemi e reazioni; e allora figuriamoci cosa sarebbe successo se la sentenza fosse andata oltre.   

In concreto, la Corte costituzionale ha già fatto “parecchio” su un problema che era da affrontare in sede legislativa e che continua a dover essere affrontato in sede legislativa. Il Parlamento se ne occuperà? 

Decisione della Corte e Codici deontologici

All’interno dei Codici deontologici non mancano norme che vietano atti idonei a cagionare la morte anche in caso di richiesta del paziente: vedasi l’art. 17 del Codice di Deontologia medica (Atti finalizzati a provocare la morte).

Domanda: a seguito della sentenza 242 della Corte costituzionale, quali effetti possono cogliersi nei confronti dell’articolo 17 del Codice di Deontologia medica?

Un giurista potrebbe o dovrebbe fare un ragionamento di questo genere. Se i Codici deontologici sono regolamentazioni assunte tramite atti giuridici, occorre domandarsi se un atto giuridico possa continuare a vietare, così in generale, condotte che, talvolta, potrebbero risultare ostative alla realizzazione di un diritto che la Corte costituzionale ha dichiarato essere un diritto della Persona, costituzionalmente garantito. E allora, dalla sentenza potrebbe derivare l’esigenza di riformulazione di quel divieto? Specificamente: che ragionamenti sono fare sulla estensione della sua formulazione?

Il problema è molto spinoso, perché quel divieto (così come è nel solco di una grandiosa e potente tradizione) ha meritato la formulazione e lo status in cui tutti lo conosciamo.

L’ordine dei medici, ovviamente, ha percepito e affrontato il problema, e lo ha risolto senza riformulare il divieto, ma riformulando le condizioni della responsabilità disciplinare.

Il Consiglio nazionale della Federazione degli Ordini dei Medici (Fnomceo) – a seguito di un lungo lavoro della Consulta deontologica – ha deliberato, alla unanimità, il seguente indirizzo applicativo dell’articolo 17 del Codice di Deontologia medica: «La libera scelta del medico di agevolare, sulla base del principio di autodeterminazione dell’individuo, il proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi da parte di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, che sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli (sentenza 242/19 della Corte Costituzionale e relative procedure), va sempre valutata caso per caso e comporta, qualora sussistano tutti gli elementi sopra indicati, la non punibilità del medico da un punto di vista disciplinare» [un dettaglio: in questa formulazione, la intollerabilità delle sofferenze sembra più oggettiva che soggettiva, ma è un dettaglio da legulei].

La filosofia sottesa all’indirizzo applicativo è illustrata in una dichiarazione della Presidenza della Fnomceo: «Abbiamo scelto di allineare anche la punibilità disciplinare a quella penale in modo da lasciare libertà ai colleghi di agire secondo la legge e la loro coscienza.  Restano fermi i principi dell’articolo 17, secondo i quali il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte. E ciò in analogia con quanto disposto dalla Corte, che, al di fuori dell’area delimitata, ha ribadito che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio ‘non è, di per sé, in contrasto con la Costituzione ma è giustificata da esigenze di tutela del diritto alla vita, specie delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento intende proteggere evitando interferenze esterne in una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio’».” In conseguenza, «I Consigli di disciplina saranno chiamati a valutare ogni caso nello specifico, per accertare che ricorrano tutte le condizioni previste dalla sentenza della Corte costituzionale … Se così sarà, il medico non sarà punibile dal punto di vista disciplinare. In questo modo abbiamo voluto tutelare la libertà di coscienza del medico, il principio di autodeterminazione del paziente e, nel contempo, l’autonomia degli Ordini territoriali nei procedimenti disciplinari, correlandoli con la perfetta aderenza ai dettami costituzionali».

In estrema sintesi. La filosofia della Corte è andata nel senso che le condotte in questione non sono punibili in quanto non vietate (non vietate perché coadiuvanti alla realizzazione di un diritto della Persona). La filosofia dell’Ordine è andata nel senso che le condotte in questione restano vietate ma cessano di essere punibili. Le filosofie sono diverse, ma sono diverse comprensibilmente in quanto espressive e rispettose delle diverse identità.

La Corte costituzionale: monito al legislatore, e disponibilità alla normazione in via sostitutiva

«La Corte ha rilevato come, in casi simili, essa abbia dichiarato l’inammissibilità della questione sollevata [perché, nel caso in questione, era stata sollevata la illegittimità di punire, in toto, qualsiasi forma di aiuto al suicidio, senza distinguere una tipologia], accompagnandola con un monito al legislatore per l’introduzione della disciplina necessaria a rimuovere il vulnus costituzionale: pronuncia alla quale, ove il monito fosse rimasto senza riscontro, ha fatto seguito, di norma, una declaratoria di incostituzionalità.

Tale soluzione è stata ritenuta, tuttavia, non percorribile nella specie.

La ricordata tecnica decisoria ha l’effetto di lasciare in vita – e dunque esposta a ulteriori applicazioni, per un periodo di tempo non preventivabile – la normativa non conforme a Costituzione. La eventuale dichiarazione di incostituzionalità conseguente all’accertamento dell’inerzia legislativa presuppone, infatti, che venga sollevata una nuova questione di legittimità costituzionale, la quale può, peraltro, sopravvenire anche a notevole distanza di tempo dalla pronuncia della prima sentenza di inammissibilità, mentre nelle more la disciplina in discussione continua ad operare.

Un simile effetto non può considerarsi consentito nel caso in esame, per le sue peculiari caratteristiche e per la rilevanza dei valori da esso coinvolti».

La Corte costituzionale in funzione legislativa

La Corte costituzionale, per evitare una lacuna normativa ritenuta pericolosa, ha disciplinato la fattispecie. In altri termini, ha legiferato.

Sia chiaro: la Corte costituzionale non ha prodotto una normativa fantasiosa. Ha prodotto una normativa traendola (come illustra in motivazione) da princìpi e criteri presenti nel sistema giuridico; traendola, in particolare, da criteri che risultano largamente menzionati e utilizzati come, nel caso, il criterio della “ragionevolezza”.

Ma queste considerazioni non modificano la percezione, e la sostanza, secondo cui la Corte costituzionale ha prodotto una normativa; e, questa volta, l’ha prodotta in modo più diretto e più evidente rispetto a quanto sia avvenuto in passato.

Inoltre, non è da sottovalutare che le “definizioni precisanti”, effettuate su “valori”, sono declinazioni connotate da discrezionalità talvolta ideologica, e ciò vale anche per il modo in cui i valori vengono tra loro bilanciati, e vale anche per il modo in cui vengono intesi e applicati alcuni “criteri” apparentemente univoci come la “ragionevolezza”.

Considerazioni come queste confermano che una materia così delicata avrebbe dovuto essere oggetto di normazione da parte del Parlamento. Ma il Parlamento non ha provveduto: provvede magari su una infinità di cosucce ma, talvolta, non provvede su grandi temi.  Del resto, alle questioni spinose ci pensano i giudici (e soprattutto la Corte costituzionale).

Esprimere pensieri su perché il Parlamento non abbia provveduto, e, magari, esprimere pensieri sulle conseguenze sistemiche dell’affidare funzioni normative ai giudici, sarebbe un fuor d’opera.