Il fatto. La signora X, affetta da instabilità della spalla sinistra, non traumatica, si rivolge alla clinica Y per la cura di tale patologia, e ivi le viene proposto l’intervento chirurgico di stabilizzazione della spalla, intervento che, a seguito del suo consenso, viene effettuato.

Successivamente a tale intervento, la paziente lamenta la mancata guarigione, ed anzi un aggravamento rispetto allo stato antecedente. Tale aggravamento (connettibile all’intervento stesso e ad omesse terapie preparatorie e riabilitative) viene prospettato nella seguente tipologia: danno biologico come danno alla salute e alla qualità della vita (da cui invalidità permanente nella misura non inferiore al 15%); stato di disoccupazione; invalidità temporanea di giorni 60; danno morale (da quantificarsi con criterio equitativo).

Viene altresì menzionato, ma in secondo grado di giudizio, il danno individuabile nella “perdita della chance di conseguire un risultato positivo in conseguenza della prestazione sanitaria”.

Il primo grado. Il Tribunale rigetta la domanda della paziente: “può condividersi la conclusione del CTU (immune da vizi procedurali e logici e confortata dai necessari accertamenti) secondo cui l’intervento chirurgico risulta essere stato un intervento perfettamente eseguito, e che non sussistono lesioni postume all’intervento e tanto meno lesioni che possono determinare una invalidità permanente. Tuttavia non può non sottolinearsi l’inidoneità della cura complessiva della paziente, essendo evidente, e rimarcato dall’ausiliario del giudice, che l’intervento non era adeguato alle condizioni dell’attrice, in quanto non preceduto da idoneo trattamento preparatorio né è stato seguito da necessario trattamento di riabilitazione”. Su quest’ultimo aspetto, le conclusioni peritali erano del seguente tenore: “anche se l’intervento è stato correttamente eseguito, così come si evince dall’esame clinico della paziente e dalla lettura della descrizione dello stesso intervento, dobbiamo dire che l’intervento eseguito non era adeguato alle condizioni dell’attore (sic) al momento dell’intervento stesso, tenendo conto che i normali criteri diagnostici necessari e sufficienti per l’instabilità anteriore di spalla non traumatica avrebbero dovuto indirizzare verso un trattamento di riabilitazione che avrebbe dovuto essere di preparazione all’intervento”.

Il secondo grado. La Corte d’appello rigetta la domanda della paziente, riproducendo, nella propria motivazione, la motivazione già formulata dal Tribunale, sottolineando parimenti che la cura non era stata adeguata sotto due profili: mancanza di preparazione all’intervento, nonché (pur in presenza di prescrizioni farmacologiche,) mancanza di trattamento riabilitativo successivo.

La Corte d’appello, nel contempo, non considera la parte della domanda risarcitoria per la perdita di chances, argomentando che tale domanda, non essendo formulata in primo grado, non era proponibile in appello.

La Corte di cassazione. La Suprema Corte cassa la sentenza d’appello, e rinvia ad altro giudice affinché procede a decidere applicando il seguente principio: “in tema di responsabilità sanitaria, qualora un intervento operatorio, sebbene eseguito in modo conforme alla lex artis e non determinativo di un peggioramento della condizione patologica che doveva rimuovere, risulti, all’esito degli accertamenti tecnici effettuati, un intervento del tutto inutile, ove tale inutilità sia stata conseguente all’omissione da parte della struttura sanitaria dell’esecuzione dei trattamenti preparatori all’intervento, necessari, sempre secondo la lex artis, per assicurare l’esito positivo, nonché della esecuzione o prescrizione dei necessari trattamenti sanitari successivi, si configura una condotta della struttura che risulta di inesatto adempimento dell’obbligazione. Tale condotta, per il fatto che l’intervento si è concretato in una ingerenza inutile sulla sfera psico-fisica della persona, si connota come danno-evento, cioè lesione ingiustificata di quella sfera, cui consegue un danno-conseguente alla persona di natura non patrimoniale, ravvisabile sia nella limitazione e sofferenza patita per il tempo occorso per le fasi preparatorie, di esecuzione e postoperatorie dell’intervento, sia nella sofferenza ricollegabile alla successiva percezione della inutilità dell’intervento”.

La Corte di cassazione, altresì, in riferimento alla domanda di risarcimento per la perdita di chance (domanda che la Corte di appello aveva ritenuto inammissibile ritenendola non formulata in primo grado) parimenti rinvia argomentando che: la domanda di risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non (domanda formulata in primo grado), esprime la volontà di riferirsi a ogni tipo di danno, cosicché, pur quando non vi sia specifico riferimento, la domanda si estende anche al lucro cessante sotto specie della perdita di chance, la cui richiesta non può, pertanto, considerarsi domanda nuova, come tale inammissibile in appello.

Commento. In primo luogo è da constatare che i contorni del fatto appaiono condivisi in tutti i gradi di giudizio: l’intervento chirurgico di stabilizzazione della spalla non ha prodotto alcun aggravamento della patologia.

Nei tre gradi emerge, parimenti condiviso o recepito, il seguente profilo fattuale: l’intervento non ha rimosso la patologia. L’instabilità della spalla, che sussisteva prima, ha continuato a sussistere successivamente. Quindi, inutilità dell’intervento: e inutilità derivante da due omissioni rispetto alla lex artis (omissione di trattamento preparatorio, omissione di riabilitazione successiva).

Ciò che è diverso, invece, è l’apprezzamento di tale situazione nei tre gradi di giudizio. Il Tribunale e la corte d’appello hanno ritenuto che, non essendosi verificato aggravamento, non era ravvisabile alcun danno. La Corte di Cassazione, invece, ha ritenuto censurabile tale ragionamento perché, secondo la suprema corte, il danno si era verificato, ed era consistito nella inutile e quindi ingiustificata ingerenza nella sfera psico-fisica della persona (con le limitazioni e le sofferenze connesse all’intervento).

Non solo in base a ciò, la sentenza della Corte di Cassazione sembra toccare, e talvolta esplicitamente, il problema della obbligazione di mezzi oppure di risultato (problema riguardante le prestazioni dei medici e dei professionisti in genere). La Corte, infatti, ritiene fondato il motivo di ricorso anche nella parte in cui il ricorso si riferisce a una “responsabilità da insuccesso per il mancato conseguimento del risultato sperato”. Tuttavia, in concreto, la Corte è pervenuta a ravvisare la responsabilità non per la mera mancanza di risultato, ma per la palese inadeguatezza dei mezzi rispetto al sapere consolidato nella lex artis. Comunque, su questo problema, della obbligazione di mezzi oppure di risultato, occorrerà tornare (soprattutto perché, da circa 10 anni, non mancano sentenze orientate a un mutamento di sensibilità).

In margine, la sentenza della Corte di Cassazione contiene qualche altra osservazione interessante anche se, nel caso, non decisivo. In particolare, viene osservato un difetto di consenso informato, dal momento che il consenso sarebbe stato da intendere relativo a un intervento astrattamente idoneo a risolvere la patologia, quindi non tale da “coprire” l’intervento effettuato in concreto (caratterizzato da rilevanti omissioni preparatorie e successive).